Banche e azionisti. Parte la stagione delle grandi operazioni sollecitate da Bankitalia.
Con Bpm conto da 9,7 miliardi. Al setaccio sconti e struttura degli strumenti offerti.
Non bastavano la crisi finanziaria del 2008 e la recessione, che zavorrano i bilanci asfissiandone i ricavi e lardellandoli di sofferenze. Oggi il top management delle banche è stretto tra il martello delle autorità di vigilanza, che chiedono iniezioni di capitale per portare i patrimoni ai requisiti di Basilea 3, e l’incudine degli azionisti, poco inclini – specie le Fondazioni – a metter mano al portafoglio se i ritorni non torneranno a salire. La stagione degli aumenti di capitale si è riaperta e nuove sorprese sono in arrivo. Anche milioni di risparmiatori che possiedono azioni bancarie, come chi intende investirvi, devono fare scelte difficili.
A chiedere rafforzamenti patrimoniali sono Banca d’Italia ed European Banking Authority, che ha sottoposto i primi cinque istituti nazionali (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Ubi, e Banco Popolare) e altri 85 in Europa a un secondo round di stress test, dopo quelli del 2010. I risultati, depositati a inizio aprile, saranno resi noti a giugno.
Frattanto Intesa Sanpaolo chiede ad azionisti e mercato 5 miliardi, Mps tra i 2 e i 2,47, Ubi uno. Popolare Milano, dopo un lungo confronto con Draghi, obtorto collo il 19 aprile ha deciso un aumento da 1,2 miliardi per riportare il core Tier 1 al 9,8% nel 2013 e il ritorno sul tangible equity in linea con i concorrenti. Il giorno dopo, forse per aver troppo tergiversato, il titolo è tracollato del 6,73%.
Tra le non quotate, Carife prepara un aumento da 150 milioni (Articolo a pag. 13 “Il Sole 24 Ore”). Il Banco ne ha raccolti due. Ma non sarebbe finita qui: secondo uno studio di Citi, nello scenario peggiore, il Banco potrebbe dover chiedere ancora mezzo miliardo, Unicredit addirittura 8,5 che calerebbero a 5,5 solo con grosse cessioni. Al “Sole 24 Ore” l’Ad Federico Ghizzoni ha ribadito che, dopo i due aumenti 2008-09 e 2009-10 (per 7 miliardi), “non riteniamo di chiedere altri capitali ai soci. Noi siamo a posto. Con la generazione interna di capitale saremo all’8,4% di Core Tier 1 nel gennaio 2013, avvio di Basilea 3, ben sopra i requisiti regolamentari”.
Ai risparmiatori converrà sottoscrivere gli aumenti? Dipende. Innanzitutto dalle forme delle operazioni (ancora non note), perché all’offerta di strumenti diversi corrispondono ipotesi di ritorni differenti. Poi dallo sconto sui corsi di mercato. La tabella (ved. “Il Sole 24 Ore”) che riporta 10 aumenti degli ultimi quattro anni (per quasi 17 miliardi), mostra che in media lo sconto sui corsi di mercato è stato del 20% circa. Ma in casi aziendali complessi o per conti “pesanti” (l’aumento del Banco, quello del 2008 di Mps per l’acquisto di Antonveneta) si è arrivati a superare il 40 per cento.
Non sempre è stato un vantaggio. Qualche investitore può aver mediare al ribasso valori di carico fuori mercato. Ma maggiore è lo sconto più titoli servono a raggiungere l’ammontare previsto. Così è più pesante l’impatto patrimoniale, in termini di book value tangibile per azione (dunque il titolo è meno “valido”) e quello reddituale (l’utile si divide tra più titoli e dunque cala l’earning per share). Citi ricorda che le banche italiane sono storicamente meno redditizie della media europea e che i nuovi aumenti le freneranno ancora. Ma politiche fiscali e rialzo dei tassi aumenteranno la redditività. Riducendo il rischio patrimoniale, si comprimeranno gli spread sul debito.
Molto dipenderà dalle strutture adottate. Secondo l’avvocato Lucio Bonavitacola, esperto di aspetti regolamentari e socio dello studio Clifford Chance che lavora ad alcune di queste operazioni, “non tutti gli aumenti sono uguali. Una cosa ad esempio è aumentare il patrimonio netto con azioni, altra è farlo con strumenti ibridi non convertibili, obbligazioni perpetue richiamabili non prima di 10 anni, con perdita del nozionale in caso di stress patrimoniali, altra ancora utilizzare contingent convertible bond, i cosiddetti CoCos, obbligazioni subordinate convertibili in azioni in situazioni di emergenza. Dipende dalle esigenze dell’istituo e dall’impatto diluitivo verso gli azionisti. Le Fondazioni chiedono aumenti sostenibili in termini patrimoniali: con eventuali interventi sugli statuti si potrebbe considerare anche l’indebitamento, che non è escluso a priori dalla legge. C’è la possibilità che, per poter accedere al credito, alcune Fondazioni si dotino di rating. Ma sono possibili strutture che consentano acquisto di azioni con pagamenti dilazionati”. “Quanto ai risparmiatori”, ricorda Bonavitacola, “vanno rispettate le norme di tutela previste dalla direttiva Mifid, specie sul fronte del profilo di rischio. Contratti e prospetti degli aumenti fanno sempre riferimento solo ai prezzi di Borsa Italiana ma, con la fine dell’obbligo di concentrazione degli scambi, in futuro sarà bene domandarsi se non sia il caso di tener conto anche dei prezzi di altre sedi di negoziazione”, conclude Bonaviticola.
Il ruolo dei dipendenti sarà centrale. A loro spetterà il compito di collocare gli aumenti. Ma, in una fase sindacale “caldissima”, hanno parecchio da dire.
Secondo Lando Sileoni, segretario generale della Fabi, “i vertici aziendali, oltre a battere cassa, devono indicare alla comunità finanziaria e al personale come intendono operare, con quali progetti, quali scelte, quali oneri. Crisi degli istituti e crollo dei titoli sono stati causati dalle difficoltà del sistema ma anche da errori del management. Penso a certi piani industriali che promettevano maxi-dividendi ed enormi utili, rivelatisi illusori o fondati su operazioni che hanno indebolito la struttura patrimoniale. Penso ai rapporti troppo stretti con i propri azionisti. Siamo invitati a credere che gli aumenti siano necessari per lo sviluppo. Ma non possono essere il pretesto per indiscriminate operazioni sugli organici, puntellare manager traballanti o perpetuare Cda preoccupati solo della propria salvaguardia”.
(Il Sole 24 Ore, sabato 23 aprile 2011 – di Nicola Borzi)