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LA FABI IN PRIMA PAGINA

di Redazione

Rinnovo del contratto nazionale, esuberi in Intesa Sanpaolo e applicazione delle norme antiriciclaggio nel Gruppo Unicredit: anche oggi la FABI fa sentire la sua voce sui temi più caldi del momento nelle pagine di Plus 24.


Da Plus 24 di sabato 4 giugno 2011

 

Fronte interno – Lo scontro sul rinnovo del Ccnl senza adeguamento all’inflazione

La mossa “eretica” sul contratto

Palazzo Altieri sa che l’abbandono all’intesa del 2009 non sarà facile

Se c’è un fronte sul quale la battaglia dell’Abi è dura e le prospettive di vittoria finale sono incerte è il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.

Ne sono consci sia il Comitato affari sindacali e del lavoro (Casl) dell’Associazione bancaria italiana, sia l’Esecutivo di Palazzo Altieri.La sfida è epocale per le banche che ritengono la riduzione strutturale del lavoro del lavoro, almeno per i prossimi due/tre anni per i quali si prevede bassa crescita, l’unica leva per aumentare rapidamente la redditività. Dunque per saziare la fame di dividendi che attanaglia gli azionisti, soprattutto le Fondazioni, specie per i gruppi (Intesa Sanpaolo, Popolare di Milano, Ubi Banca, Mps solo tra i maggiori) alle prese con gli aumenti di capitale necessari per adeguare le strutture patrimoniali ai requisiti di Basilea 3. Fatte salve improbabili retromarce, lo scontro sarà durissimo.

I sindacati del “primo tavolo” (Dircredito, Fabi, Fiba/Cisl, Fisac/Cgil, Sinfub, Ugl Credito e Uilca) il 7 aprile hanno presentato la piattaforma che dovrebbe essere trasmessa all’Abi intorno alla metà di luglio. La richiesta economica dei sindacati per il triennio 2011- 13 è di un aumento medio di 205 euro mensili (pari al 7,29%), con un ulteriore aumento dell’1% attraverso la revisione della scala parametrale che porterebbe l’incremento medio finale a 245 euro mensili. Lo stesso giorno, però, l’Abi disdettava l’accesso volontario al Fondo di solidarietà di settore.

Il contrasto è frontale: secondo l’Esecutivo dell’Associazione bancaria, il prossimo rinnovo contrattuale dovrà vedere un “salto di qualità” innovativo perché per la prima volta gli incrementi economici dovranno essere agganciati non più, come in passato, a “parametri oggettivi” ma a “reali incrementi di produttività”. Secondo le banche però ciò non significa rinnovare il contratto a costo zero, ma agganciare gli aumenti retributivi “a effettivi miglioramenti di produttività e efficienza”. Secondo l’Abi è un progresso culturale di enorme portata, sul quale l’Abi rivendica una posizione di leader e apripista anche nei confronti delle altre organizzazioni imprenditoriali.

Le banche sanno bene però che l’obiettivo non sarà facile per una serie di motivi ben chiari. C’è la questione dell’unicità della proposta, visto che i contratti nazionali degli altri settori rinnovati dal 2009 – anno della firma dell’accordo interconfederale – hanno sempre fatto riferimento all’indice Ipca previsto dall’accordo. L’Esecutivo bancario sa bene, quindi, che “la posizione dell’Abi risulta isolata nel panorama delle relazioni industriali”.

Inoltre la mancata applicazione dell’accordo del 22 gennaio 2009 sarà giudicata negativamente dal governo che di quell’intesa fu promotore. La mossa dell’Abi è di quelle “eretiche”, tali da non permettere ripensamenti da parte della base. Se l’associazione non sarà granitica nel perseguirla, sarebbe pregiudicato l’intero percorso negoziale di rinnovo del contratto.

Ecco perché Palazzo Altieri ritiene necessarie “le forme più idonee di comunicazione” per far arrivare all’opinione pubblica messaggi chiari, convincenti e soprattutto coerenti sulla linea politica e comportamentale del settore. Ma i sindacati, c’è da scommettere, non resteranno a guardare.

Nicola Borzi

 

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Credito e dipendenti Crescono le tensioni sul Piano d’Impresa 2011-2013

Escalation-esuberi in Intesa Sanpaolo

Per l’azienda 10mila eccedenze Sindacati sul piede di guerra

«Considerate le eccedenze di personale di oltre 10mila unità». Sono le esatte parole, inserite nella seconda pagina di una lettera di quattro per l’avvio delle procedure sindacali sul piano di impresa 2011-2013, che è stata inviata il 30 maggio da Marco Vernieri, direttore del personale di Intesa Sanpaolo, alle segreterie aziendali e nazionali di Dircredito, Fabi, Fiba/Cisl, Fisac/Cgil, Sinfub, Ugl Credito e Uilca. Su questa frase è scoppiato uno scontro al calor bianco tra i sindacati, in particolare la Fabi, e l’azienda. Sono volate parole grosse e lo strappo non pare facile da ricucire.

«Plus24» ne aveva parlato già il 16 aprile, spiegando che il piano d’impresa 2011-2013/15, presentato dall’ad Corrado Passera l’11 aprile ai sindacati, prevedeva sul fronte occupazionale oltre 5mila persone da ricollocare in ruoli commerciali (in tre anni), a fronte di circa 8mila “efficientamenti totali”, con i dipendenti del gruppo che caleranno da 101mila a fine 2010 a 98mila a fine 2013 (in Italia a fine 2010 i dipendenti erano 70.660) per il blocco del turnover. Nel progetto sono previsti interventi su almeno mille filiali, con un centinaio di aperture e 400/500 tra chiusure e accorpamenti in caso di sovrapposizione, passando dalle attuali 5.500 a 5.100/5.200 in Italia a fine percorso. Il tutto per ottenere 770 milioni di risparmi di costo nel triennio.

Ma la lettera del 30 maggio ha alzato ulteriormente l’asticella dei risparmi, scrivendo che «la riduzione strutturale del costo del lavoro» deve essere pari ad «almeno 300 milioni di euro con effetto dal primo gennaio 2014».

Apriti cielo. Numeri che non tornano sul fronte occupazionale (si parlava di 8mila “efficientamenti” con 3mila uscite e 5mila “riconversioni” – tutte da verificare e da gestire – e ora si legge di oltre 10mila “eccedenze”), risparmi di costo del personale che si impennano (da 770 milioni in tre anni, per una media annuale di poco meno di 257 milioni, a 300 dal 2014) hanno scatenato le ire dei sindacati aziendali che a strettissimo giro di posta hanno pubblicato una nota unitaria nella quale contestano che «l’azienda fornisce oggi una nuova e preoccupante interpretazione delle linee di intervento tracciate al momento della presentazione del piano d’impresa.

Spicca come una smaccata contraddizione, rispetto alle posizioni assunte dall’Abi nel confronto nazionale, il possibile ricorso al Fondo di solidarietà per gestire l’uscita di personale in caso di mancata riqualificazione dei 5.000 addetti».

I sindacati hanno giudicato nell’insieme le «provocazioni che giungono dalla controparte» come un «un segnale gravissimo per le lavoratrici e i lavoratori di Intesa Sanpaolo» e hanno respinto la lettera perché «unico dato certo è che la banca intende raggiungere gli obiettivi del Piano d’Impresa attraverso la riduzione del costo del lavoro confermando quindi la tesi degli analisti, che gli obiettivi di crescita, contenuti nel piano, sono troppo ambiziosi».

Le segreterie nazionali dei sindacati di settore hanno preso immediatamente posizione contro il management della prima banca nazionale. Massimo Masi, segreterio generale della Uilca, e Agostino Megale, segretario generale della Fisac/Cgil, non hanno mancato di esprimere critiche pesanti.

Ma lo scontro ha raggiunto una durezza inusitata con l’intervento del segretario nazionale della Fabi, Lando Sileoni, che ha definito «sconcertante e socialmente “vergognoso” che il gruppo Intesa, in un momento così difficile per il Paese e per il mondo del lavoro, dichiari 10mila esuberi, a maggior ragione per un gruppo che ha l’ambizione di porsi come la banca “di riferimento” della nazione», chiedendo l’intervento della politica e del Governo.

Affermazioni smentite da un portavoce del gruppo, secondo il quale «le affermazioni della Fabi, che sconcertano nel tratto e sorprendono nei contenuti, sono destituite di fondamento. Intesa Sanpaolo precisa che restano ovviamente confermati gli obiettivi del Piano d’Impresa in materia di riorganizzazione e di riqualificazione delle risorse, obiettivi peraltro apprezzati anche dalla Fabi».

Ma Sileoni ha ribattuto immediatamente «Banca Intesa mente sapendo di mentire e smentisce solamente la Fabi. È una vergogna».

Ora il confronto rischia di trasformarsi in una guerra di trincea con le parti asserragliate sulle rispettive posizioni. Uno scontro rischioso per Intesa Sanpaolo, che ha alle viste l’aumento di capitale, ma anche per i sindacati impegnati in una prova di forza parallela con l’Abi sul rinnovo del contratto nazionale di categoria (si veda l’articolo a pagina 6) e sul Fondo di solidarietà di settore.

Nicola Borzi

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1 commento

Mauro Tessadrelli 7 Giugno 2011 - 12:07

La Fabi è in prima pagina, e non potrebbe essere diversamente visto il ruolo di “locomotiva” del percorso negoziale che si è assunta, su tutti i tavoli ed in tutte le partite in corso.
ne siamo orgogliosi e per nulla preoccupati, vista la ben nota capacità dei nostri quadri di negoziare senza accondiscendere, di essere fermi nei propositi quanto aperti alle soluzioni che servono a tutti, lavoratori ed aziende.

Questo detto vorrei condividere una riflessione sulla specificità della situazione del nostro settore, specificità esemplificata dalla decisione di ABI di non applicare l’accordo del 2009 e questo diversamente da tutte le altre categorie che hanno sin qui compiuto l’iter del rinnovo contrattuale.

Domandarsi il perché di una simile decisione porta, a mio avviso, a rispondersi che la differenza sta “nei manici”.

mentre nella stragrande maggioranza delle altre aziende il management è espressione di un chiaro quanto delineato mandato dei consiglio di amministrazione, dove siede una proprietà chiaramente individuabile e portatrice di definiti interessi, nelle banche accade che l’azionariato, comprese le maggiori quote di riferimento, abbia negli anni dato “carta bianca” sul “come” in cambio della certezza di consistenti dividendi.

La proprietà di controllo di un gruppo industriale si interessa di come avviene la produzione e la commercializzazione del prodotto; nelle banche, sopratutto di gradi dimensioni e nei gruppi, sembra che le modalità di raggiungimento dell’utile siano marginali, o non rientrino negli interessi di chi le controlla e vengano lasciate alla libera interpretazione del top management.

Lo scambio, chiarissimo alla luce dell’andamento dei compensi per amministratori delegati & company, è alti stipendi contro alti flussi di denaro nelle tasche dell’azionariato.

La crisi ha incrinato però il giocattolo e la riduzione dei flussi di denaro ai possessori d’azioni mette in discussione il reddito, se non addirittura il posto di lavoro, dei “direttori d’orchestra”.

In questa luce si spiega la durezza della posizione di controparte; i signori del credito lottano per il “loro” incarico prima ancora che per il futuro delle aziende che rappresentano e non vogliono sentir parlare di riduzione dei compensi, altrimenti potrebbe risultarne danneggiata la loro “professionalità” (sigh!).

Se l’operazione riuscisse sarebbe un danno per i lavoratori e le lavoratrici del credito ma anche e sopratutto per le aziende dove essi lavorano; i barbari tagli proposti, ad esempio nei piani industriali, risolveranno forse a breve il problema per gli azionisti ma nel medio finirebbero per minare la capacita produttiva delle banche, lasciandole deboli di fronte ad una auspicata futura ripresa.

Quanto sopra per tacer del ruolo istituzionale, sociale e di controllo che normative primarie e bilanci sociali assegnano al sistema bancario, ruolo propalato e poco o per nulla interpretato nell’ultima decade; come se fosse inconciliabile l’utile con la socialità ed il rispetto delle leggi.

Parrebbe, almeno a mio sommesso parere, che il futuro delle trattative in corso stia nel raccogliere le sensibilità di tutti gli stake holders e coagularle in una visione comune che non è e non può essere quella di un management che da anni, come un maldestro mezzadro, munge una mucca non sua e poi si tiene quasi tutto il latte.

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