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L’ECO DI BERGAMO INTERVISTA SILEONI

di Redazione

Intervista a tutto campo al leader della FABI su fusioni, riforma BCC e caso MPS: “Nella partita Banco-BPM, se autonomia di BPM dovesse cadere, gestione assemblea potrebbe essere complicata. UBI può camminare da sola”

L’ECO DI BERGAMO giovedì 3 marzo 2016
«Con Bpm-Banco si capirà la linea Bce sulle fusioni» – Il risiko. Sileoni (Fabi): se chiede l’aumento di capitale, crea un precedente Su Mps: «Serve una regìa rapida del governo. Condivido la prudenza di Ubi»

SILVANA GALIZZI

Riforma del credito cooperativo e gestione delle sofferenze. Sono i due temi del momento nel sistema bancario. La prima ha incontrato in commissione Finanze alla Camera le obiezioni anche della Banca d’Italia il responsabile della Vigilanza, Carmelo Barbagallo, l’altro ieri in audizione ha chiesto modifiche sul meccanismo d’uscita (way out) che dà alle Bcc con patrimonio netto superiore ai 200 milioni la possibilità di uscire, appunto, dal gruppo unico. La gestione delle sofferenze è un altro tema chiave del decreto in discussione e si sta rivelando sempre più un problema nel risiko bancario, partire dalla prima fusione in rampa di lancio: Bpm- Popolare. Qui, sottolinea Lando Sileoni, segretario generale nazionale della Fabi, primo sindacato dei bancari, si vedrà quale sarà la linea della Bce ovvero se chiederà o meno aumenti di capitale.
Sileoni, anche Bankitalia ha criticato la way out prevista dalla riforma delle Bcc. Lei come la giudica? 
«Il decreto sulle Bcc è uscito dal consiglio dei ministri con sfumature diverse rispetto a quanto era stato auspicato da Banca d’Italia e a questo risultato si è arrivati probabilmente perché il premier Renzi all’ultimo momento ha cambiato idea rispetto a quanto era maturato nei colloqui fra il presidente di Federcasse Azzi, il ministro Padoan e la stessa Banca d’Italia Detto questo, dal punto di vista giuridico la riforma è ineccepibile. Sul piano politico, invece, pone le premesse per destabilizzare il sistema cooperativo e questo è un danno. Con la way out il rischio è che si creino delle piccole repubbliche nel movimento».
Si potrà correggere il tiro?
«Molti parlamentari si sono attivati sul territorio. Credo che, senza snaturare l’impianto di una riforma importante, il governo potrà trovare i correttivi migliori per tenere insieme tutto il sistema cooperativo».
L’altro punto chiave del decreto riguarda la gestione delle sofferenze. Il timore è che non ci sia ancora una soluzione adeguata. È così?
«Credo che la soluzione non si sia trovata ancora. Anzi, il rischio è che si creino ancora più morti e feriti sul territorio. Mi spiego. Affidare a terzi il recupero dei crediti crea le condizioni per una rottura ancora più traumatica fra banche e territori».
Quale può essere la soluzione?
«A nostro avviso vanno rinegoziati i termini per la valutazione delle sofferenze: va dato respiro, nel tempo e nella forma, imprese e famiglie in difficoltà. Perché il problema non è solo sgravare le banche dalla zavorra delle sofferenze, ma anche non tormentare il territorio oltre il sostenibile. recupero va spostato dal breve al medio- termine».
Le sofferenze intanto stanno ostacolando di fatto le fusioni. Bpm-Banco Popolare sembrava fatta, ora un po’ meno.
«Il tema è capire se la Bce imporrà o meno degli aumenti di capitale nelle fusioni e il primo segnale della linea che sarà adottata si avrà proprio con Bpm-Banco Popolare. Se imporrà un certo tipo di aumento, creerà un precedente che sarà trasferito alle fusioni successive».
Il consigliere delegato del Banco Saviotti ha detto che se la Bce chiede l’aumento la fusione non si fa. 
«Così ha detto. Ma attenzione. La Bce potrebbe anche non imporre l’aumento lasciando così a chi gestisce la fusione la responsabilità di portarla a buon fine, sotto ogni punto di vista».
Le ipotesi che circolano su una vendita a step delle sofferenze possono risolvere il problema? 
«Non credo ci sia una trattativa in atto con Francoforte su questi temi. La Bce ha chiesto risposte su determinati argomenti, fra cui anche l’autonomia di Bpm per tre anni. Se questa dovesse cadere, la gestione dell’assemblea dei soci della Milano potrebbe diventare complicata».
In questi giorni si è tornati a parlare anche di Mps. Nessuno la vuole, a partire da Intesa Sanpaolo e anche Ubi ha detto «no, grazie». Come vede la situazione?
«Servirebbe una cabina di regia del governo per evitare di arrivare ad affrontare all’ultimo momento un problema che, se non viene risolto per tempo, rischia di destabilizzare il sistema bancario italiano. Oltre al patrimonio storico di Siena, vanno difesi i posti di lavoro. Per quanto riguarda Ubi, ha fatto bene, rispetto ai rumors che la davano candidata alle nozze, a essere estremamente prudente. Vanno valutati non solo gli aspetti economici, ma anche occupazionali. Credo comunque che sia il consigliere delegato Massiah sia gli azionisti bergamaschi più autorevoli siano persone che non vanno all’avventura Resta il fatto che su Mps serve un intervento del governo rapido».
Quanto tempo resta?
«Quanto non lo so. Noi ci auguriamo che Mps ce la faccia anche a restare autonoma. Però ci sono regole del mercato da rispettare. Servono tempestività e lungimiranza».
Intesa Sanpaolo è più grande: perché non c’è pressing affinché si faccia carico di Mps?
«Si è chiamata fuori».
Anche Ubi ha detto no.
«E ne condivido totalmente la prudenza. Ubi può camminare da sola. Con o senza intervento del governo, in un paio d’anni sarà il terzo o quarto gruppo bancario per sportelli, volumi e dipendenti».
In generale come vede le prospettive del sistema bancario? 
«Oggi i lavoratori sono 305 mila. Da gennaio 2000 al 2020 si stimano, tra esodi realizzati e futuri, 68 mila uscite, a fronte di 23 mila assunzioni. Credo che se le banche sapranno cambiare pelle e modello, con più consulenza e nuove professionalità, potremo mantenere i livelli attuali».

 

 

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