Home Editoriali UNICREDIT: ROTTE, TIMONI E TIMONIERI (La Voce dei Bancari, 8 ottobre 2010)

UNICREDIT: ROTTE, TIMONI E TIMONIERI (La Voce dei Bancari, 8 ottobre 2010)

di Redazione

Nel maggio 2008 un celebrato guru della consulenza aziendale, Roger Abravanel, ha scritto un libro (divenuto in breve un best seller), grazie ai soliti sublimi favori del sistema mediatico, dal titolo significativo: “Meritocrazia” (ed. Garzanti).

A pagina 237 affermava, tra l’altro: “…Alessandro Profumo, in poco più di dieci anni, ha fatto di Unicredit una delle migliori Banche d’Europa” e seguitava “… quando si parla di Profumo con coloro che hanno lavorato con lui, sia all’interno che all’esterno della Banca, si comprende il segreto che sta dietro allo straordinario successo di Unicredit: la Leadership ed i valori di chi guida l’Azienda…La sua unicità sembra essere la capacità di creare una cultura di valori che attrae i migliori, li valorizza al massimo e li proietta nel futuro…” ed ancora: “…per Alessandro Profumo la vera sfida è stata quella di trasformare la filosofia dell’azienda, creando un contesto nel quale i migliori potessero realizzarsi… Ma la trasformazione culturale di Unicredit non poteva fermarsi a questi livelli, dato che, in una banca commerciale, la leva principale della soddisfazione del cliente è nelle mani (del Personale) di chi è sulla front-line, soprattutto nelle filiali”.

Aggiungeva ancora il consulente: “…Unicredit grazie al programma formativo “Leadership for results” ha avuto miglioramenti misurati numericamente in termini di soddisfazione e fidelizzazione della clientela oltreché di ambiente di lavoro positivo ed a livello di conto economico…Il barometro è in costante miglioramento…”.

Preferisco fermarmi qui e non continuare. Mi scuso per questa lunga citazione alla memoria che, in alcuni passaggi, potrebbe sembrare un epitaffio ironico rivolto al “Grande timoniere” che fu, ma – scusate – da quelle lodi (davvero poi così oggettive e disinteressate?) sembra trascorso quasi un secolo…Di fronte alla traumatica uscita dell’Amministratore Delegato è giusto domandarsi in quali condizioni versi il Gruppo e perché si sia giunti a richiedere la riduzione di 4500 posti di lavoro (cui vanno aggiunti, non dimentichiamolo, i tagli, già definiti, di altri 2500 posti riguardanti Capitalia).

A regime, il piano presentato alle Organizzazioni Sindacali, mira a realizzare risparmi e contenimenti sul costo del personale per oltre 420 milioni di euro: un modo davvero anomalo per ottenere risultati di bilancio.

Ma come? Nel 2008…? Oggi i dati dicono che la spinta commerciale del Gruppo è diminuita, che alcuni territori importanti rischiano di voltare le spalle alla Banca, che il modello organizzativo incentrato sul “Bancone” suscita timori, crea dissapori interni e perfino rigetto da parte degli alfieri del potere politico ed economico locale che temono un forte ridimensionamento della propria influenza fatta di protettorati e rendite di posizione. La cancellazione di fatto di marchi storici come Banco di Sicilia e Bipop ha fortemente indebolito l’economia dei territori, facendo perdere il senso d’identità degli stessi lavoratori.

Dopo la moda della divisionalizzazione e della segmentazione della clientela (imposta dalle scuole di pensiero strategico di derivazione anglosassone e da manager di stretta osservanza, legati al carro di ben note istituzioni) si è passati a pensare un modello che, pretendendo di unificare generi diversi, rischia di trasformarsi in un’autentica “anomalia genetica”.

I processi di fusione e unificazione aziendale devono, certo, avere il benestare degli organi societari e delle assemblee degli azionisti, ma devono poggiare su un consenso vero, non imposto.

Il limite del progetto “Bancone” non sta nel modello in sé, pur opinabile, ma nella carenza di consenso attorno alle scelte che esso comporta. Questo, si badi bene, non significa vagheggiare alcun modello di gestione assembleare, ma significa riconoscere con realismo che, senza il consenso delle persone, non si guida alcuna organizzazione.

La nostra posizione politica è quella di chi sa di avere di fronte a sé precisi doveri.
In primo luogo il dovere della tutela del patrimonio rappresentato dalle persone (il capitale umano; sia ben chiaro:oggi siamo noi, proprio noi a definirlo così!); dalle loro esperienze, dalle loro competenze, dal loro dover essere spesso riferimenti unici di una famiglia, dal loro voler entrare stabilmente nel mondo del lavoro. Chi dovrebbe rispondere di errori o scelte dubbie, oggi esce con l’equivalente di una mega vincita al SuperEnalotto (capace anche di nobili gesti caritatevoli), mentre chi non ha responsabilità passa al…bancone per ritirare il conto della spesa.

Manca qualcosa.
È evidente che qualcosa non torna. Ma siamo, comunque, noi che dobbiamo assumerci l’onere di discutere, trattare, negoziare condizioni diverse.
Dobbiamo rivendicare una presenza che lasci aperti spazi anche al negoziato territoriale, per poter trovare, nello specifico, soluzioni adatte a gestire i casi più difficili.

Dobbiamo costruire una linea di difesa mobile: vale a dire permettere contestualmente l’immissione al lavoro di nuove energie che alimentino il ricambio professionale degli organici.
Questo significa che è necessario trovare spazio per i giovani e creare i presupposti per il futuro rilancio.

Ancora: nel Gruppo dobbiamo vincere la battaglia della burocrazia interna, che rallenta le decisioni e fa sprecare tempo, che allontana i clienti spingendoli laddove si sentono meglio accolti, più capiti, più accuditi.
Deve essere chiaro che il Bancone crea sì sinergie di costo, ma fa paura perché il gigantismo fa temere al singolo cliente di non essere considerato un bene individuale.

Il Bancone deve poggiare, allora, su leve organizzative e sistemi procedurali non improvvisati, a forte tenuta motivazionale. I territori vanno gestiti con Unità Operative capaci di pronta risposta in materia commerciale e creditizia; le strutture di controllo devono tutelare la Banca, ma al contempo diffondere una cultura della legalità operativa (che si va via via affievolendo come valore); le strutture di staff devono dare un supporto che esprima servizio e non rappresenti soltanto un potere.
Di tutto ciò – purtroppo – non vediamo ancora segni tangibili. Dobbiamo essere rassicurati da progetti ed iniziative concrete. Solo dopo potremo discutere del resto.

Perché un taglio lineare di organici e costi – scusate tanto – non è proprio un progetto.
E pensiamo che anche quegli stessi manager che conducono il negoziato sindacale, pur restando fedeli al loro ruolo, siano capaci di fare molto meglio.

Ora il timone passa nelle mani di Federico Ghizzoni, nuovo CEO del Gruppo. A lui spetta il non facile compito di guidare una grande nave in un mare in tempesta, con l’obiettivo di riportare serenità e normalità. Dovrà concentrarsi sulla gestione, anziché essere, come nel recente passato, troppo attento all’immagine del leader, alle relazioni e alle operazioni di facciata.

(Da La Voce dei bancari n.8 Ottobre 2010)

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