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“UNICREDIT, UNA VERGOGNA – NECESSARIO NUOVO CONTRATTO NAZIONALE”

di Redazione

Milano Finanza, sabato 21/01/2017

Filiali, chi ha tagliato di più

– Cervini Claudia –

Vita sempre più dura per le filiali bancarie, che devono fare i conti con la necessità degli istituti di ridurre i costi ripensando il proprio modello di business. Da un lato l’uso del digitale è sempre più massiccio, dall’altro la rete di distribuzione si fa sempre più variegata (basti pensare a Intesa Sanpaolo che, dopo aver rilevato Banca ITB, metterà a disposizione una gamma di prodotti finanziari di base nelle tabaccherie). Due forze motrici che, in misura diversa, stanno lasciando il segno. Lo sportello rimane un punto saldo nella strategia distributiva degli istituti di credito, ma la rete fisica si trova a farei conti da alcuni anni con una dieta obbligata. A dicembre 2015 gli sportelli nella Penisola secondo i dati di Banca d’Italia erano 30.258, al 30 settembre 2016 (ultimo dato disponibile) si sono ridotti a 29.335, 923 in meno, mentre dal 2010 al 2016 si parla di un taglio di quasi il 13%. Antonio Patuelli ha di recente notato che il processo di riduzione del numero degli sportelli bancari in Italia ha nettamente accelerato. Nell’intero 2015 erano stati chiusi circa cinquecento sportelli, mentre nei primi nove mesi del 2016 siamo già quasi al doppio, a conferma dell’impegno che le imprese bancarie stanno mettendo nell’applicazione dei piani industriali di riorganizzazione e ristrutturazione. Da una rielaborazione fatta dall’ufficio studi di First-Cisl emergono aspetti interessanti del fenomeno. La dieta delle filiali non fa distinzioni tra Nord e Sud. Basti pensare che la regione dove i tagli sono stati maggiori è il Veneto: -8,9% dal 2014 al 2016. A seguire c’è la Sardegna con -8%, poi il Trentino Alto Adige (-7,1%) e le Marche (-5,8%). Analizzando un arco temporale più lungo (dal 2000 al 2016), in testa alla classifica dei tagli degli sportelli c’è ancora una volta il Veneto (-17,4%). Ciò significa che in questa regione negli ultimi sei anni sono state chiuse 629 agenzie. Segue la Calabria, dove dal 2010 al 2016 sono scomparse 76 filiali (-14,6%). Si tratta di numeri molto diversi fra loro perché la presenza delle banche sui territori non è omogenea. Tra le regioni dove la razionalizzazione è stata più massiccia ci sono anche la Liguria (-14,3%), ancora una volta le Marche (-14,5%) e l’Umbria (-14,3%). I tagli continueranno anche nei prossimi mesi. La Fabi ricorda che nei prossimi tre anni sono previste come minimo altre 3 mila chiusure. Più nel dettaglio, da adesso fino al 2019 si prevedono almeno altri 2.809 tagli, un numero che potrebbe crescere ulteriormente con la presentazione dei nuovi piani industriali. Se è vero, infatti, che 1’81% dei clienti utilizza ormai i canali digitali delle banche soprattutto per le operazioni quotidiane, la maggior parte va ancora in filiale per le scelte finanziarie più complesse (consulenza, assistenza, richiesta di mutui, affidamenti su conto corrente). Secondo il sindacato, meno filiali significa meno concorrenza e meno assistenza finanziaria a famiglie e imprese. E a risentire del problema sono soprattutto i piccoli centri e gli anziani. «Ormai da anni il sistema bancario si illude di risolvere le criticità strutturali insistendo su interventi, come il taglio degli sportelli e del personale, che riducono i costi delle aziende senza innovarne la capacità di generare ricavi», commenta Giulio Romani, segretario generale di First Cisl, «la digitalizzazione e il cambiamento delle abitudini dei consumatori, insieme con i vincoli dei regolatori, impongono invece di investire sul modo di fare business individuando, all’interno delle banche, nuovi modelli organizzativi, nuovi mestieri che consentano la realizzazione di utili compatibili con l’indispensabile produzione di reddito sociale». E impensabile, tuttavia, fermare questo fenomeno. Ed è quindi necessario capire come limitare gli impatti sull’occupazione. «Bisogna che il sindacato unitariamente prenda atto che è arrivato il momento di rimettere in discussione il contratto nazionale di lavoro per prevedere altre forme di attività professionali e per aprire a nuovi mestieri che rilancino ricavi e occupazione», ha proposto il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, «in questi giorni, all’interno del Gruppo Intesa, le organizzazioni sindacali stanno discutendo sull’opportunità di dare stabilità contrattuale e professionale a quei dipendenti assunti anche con contratto da promotori finanziari (in Intesa sono oltre 5 mila, nel settore bancario italiano oltre 40mila)», prosegue, «prevedere nuove flessibilità contrattuali e nuove attività professionali sarà un percorso obbligato per mantenere gli attuali livelli occupazionali del settore e il movimento sindacale, tutto, se ne deve fare una ragione perché è nell’interesse del sindacato allargare il proprio campo d’azione e tutelare al meglio più tipologie di lavoratori, a iniziare dai giovani». (riproduzione riservata)

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Repubblica, sabato 21/01/2017

Abi e sindacati ora studiano un altro contratto

– Amato Rosaria –

ROMA. Subito un nuovo contratto per i bancari, per valorizzare le nuove professionalità e salvare posti di lavoro. Lo chiede Lando Sileoni, segretario generale della Fabi, il sindacato di maggioranza del settore, lanciando l’allarme sui troppi esuberi annunciati in questi giorni dalle banche. Denunciando in particolare «il taglio di oltre 10.000 posti di lavoro da parte del Gruppo Unicredit», Sileoni cita il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, che a proposito della crisi di Alitalia ha affermato: «Per le pessime gestioni di alcune aziende non devono pagare i lavoratori». Il sindacalista accusa «i grandi gruppi, eccetto Intesa», di scaricare «sul personale non solo il prezzo delle pessime gestioni degli istituti, sofferenze bancarie comprese, ma anche gli alti stipendi e le buonuscite milionarie dei manager passati e presenti». Dal 2000 a oggi il Fondo di solidarietà dei bancari ha permesso di gestire con una certa serenità circa 40.000 esuberi, grazie ai prepensionamenti. Ma da qui al 2020 le banche hanno comunicato di voler tagliare ulteriori 18.000 posti di lavoro, mettendo a dura prova il Fondo: con l’ultima legge di Bilancio sono stati stanziati 648 milioni destinati ad accompagnare all’uscita fino a 25.000 bancari nel giro di 7 anni, durata massima del sostegno. Le risorse per il momento sono sufficienti, afferma Eliano Omar Lodesani, presidente del Comitato affari sindacali e del lavoro di Abi: «Abbiamo ancora spazio, se la situazione rimane sotto controllo. Le risorse per 15.000 esuberi sono sufficienti e si potrebbe arrivare a 25.000». Ma il nervosismo dei sindacati nasce dal recente eccessivo ricorso agli esuberi, che potrebbe far saltare il banco. Anche se lo stesso Sileoni sottolinea come molte banche si stiano invece battendo a fianco dei lavoratori per salvaguardare i posti: «Al Gruppo Ubi e al Gruppo Bper questo merito va riconosciuto». E per ampliarli anche, riconoscendo il ruolo e la professionalità di figure che finora sono rimaste fuori dal contratto collettivo di lavoro, eppure lavorano da tempo nel settore: «In questi giorni, all’interno del Gruppo Intesa le organizzazioni sindacali stanno discutendo dell’opportunità di dare stabilità contrattuale e professionale a quei dipendenti assunti anche con contratto da promotori finanziari ( in Intesa sono oltre 5.000, nel settore bancario italiano oltre 40.000) ». Ecco perché tornare al tavolo in anticipo per discutere del contratto, che è stato rinnovato all’inizio del 2015 e scade nel dicembre 2018, potrebbe dare un importante contributo alla tenuta del settore, per «prevedere nuove flessibilità contrattuali e nuove attività professionali». Un’esigenza sulla quale concorda l’Abi: «È determinante iniziare in tempo — dice Lodesani, che parla di contratto “epocale” — per confrontare le reciproche posizioni e capire come attuare una ristrutturazione».

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