I tentativi di allentare la tensione si ripetono invano, da mesi. Ci ha provato Unicredit a fine 2008, con il fondo da 5 miliardi per le piccole imprese. Più di recente il Monte dei Paschi di Siena ha messo in campo il credito agevolato alle aziende che non licenziano e infine, il 4 luglio, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, ha dichiarato diplomaticamente che “la collaborazione con i prefetti funziona”.
I prefetti sono uno degli ultimi problemi, nella guerra delle banche. Dalla fine di marzo, per un decreto varato dal ministero dell’Economia, sono incaricati di monitorare l’andamento del
credito e di intervenire su specifici reclami presentati da imprese e da famiglie per “credito negato”.
Non la pensa come Passera il presidente dell’Associazione Bancaria italiana, Corrado Faissola, che in più occasioni ha ceduto alla tensione che circonda il mondo del credito, accusando gli stessi prefetti di “ingerenze indebite” e poi ancora definendo “antietico al mercato” il tetto alle commissioni di massimo scoperto, deciso alla fine di giugno dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
Intanto proprio i prefetti, cui si rivolgono le imprese in difficoltà, da aprile a oggi hanno presentato 200 reclami alle banche. E l’assedio agli istituti di credito continua. Perché da mesi subiscono sempre le stesse accuse: chiudono la porta alle imprese davanti alla tempesta della crisi; e per di più lucrano su meccanismi incomprensibili alle famiglie, dai tassi sui mutui alle commissioni occulte, fino ai prodotti finanziari “bidone”. Ultimo è venuto il caso Lehman Brothers, su cui la procura fiorentina indaga da giugno e ora ipotizza perfino il reato di truffa. Ovviamente per le banche che hanno venduto ai loro clienti i prodotti in default. In prima fila fra gli “assedianti” ci sono governo e istituzioni. Sono passati cinque anni da quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti teneva in mostra sulla scrivania il barattolo dei pelati Cirio, ma la sua severità verso il mondo bancario non sembra calata: il 24 giugno ha rispolverato la battuta di Bertolt Brecht su chi sia più criminale tra chi ruba in una banca e chi la fonda. Il 2 luglio anche il governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, ha esortato le banche a girare a imprese e famiglie i 442 miliardi di euro ottenuti dalla Bce al tasso minimo dell’1%. Cosa di cui gli imprenditori almeno in Italia dubitano, convinti che i banchieri in
realtà preferiscano tenerli liquidi, piuttosto che rischiare che vadano in sofferenza. Se c’è una critica che fa arrabbiare i banchieri è proprio questa, come si capisce bene dalla reazione del capo dell’ufficio studi dell’Abi, l’Associazione delle banche, Gianfranco Torriero. “I fatti” dice a Economy “dimostrano esattamente il contrario: noi siamo costretti a tenere il denaro liquido, con un tasso di remunerazione inferiore a quello pagato alla Bce, proprio perché le imprese non ci chiedono prestiti in misura sufficiente”. L’Abi rivendica inoltre gli sforzi fatti negli ultimi mesi per facilitare il credito: dall’accordo con la Cassa depositi e prestiti, “che mobilita 8 miliardi a un tasso predeterminato per la piccola impresa”, fino a quello con la Sace, ai primi di luglio, “che offre garanzie a chi ne sia sprovvisto”. Infine, la rivendicazione orgogliosa del ruolo dei banchieri: “A differenza di quanto accaduto in altri Paesi, l’Italia non ha dovuto spendere un euro per salvare banche in difficoltà”.
Andrà avanti così, con accuse brucianti e difese appassionate, almeno fino all’autunno: perché e quella scadenza che rende nervosi gli imprenditori, i politici e anche le banche. Tutti sono angosciati dalla stessa domanda: che succede se la ripresa, anziché manifestare i primi segnali in ottobre o in novembre, come si spera, tarda fino a gennaio o a febbraio?
In molti temono che questo possa tradursi in una difficoltà supplementare per le imprese italiane, molte delle quali hanno già oggi il fiato grosso. “Il rischio” dice Cinzia Bonfrisco, senatrice del Pdl e relatrice del disegno di legge per la riforma delle banche popolari, “è che a settembre la miscela fra caduta degli ordini e scarsità del credito produca danni irreparabili. Se chi è a corto di
liquidità comincia a ritardare i pagamenti ai fornitori, va in sofferenza tutto il sistema”.
Di fronte a questo scenario, impegnativo ma non catastrofista,
s’ipotizzano già rimedi d’emergenza. Non solo quelli della Cassa depositi e prestiti: c’è chi pensa anche alle fondazioni bancarie, notoriamente ricche di liquidità, che però al momento restano fuori dai giochi per vincoli statutari. Per aiutare le imprese ad attraversare la crisi ci vorrebbero istituti di credito pieni di forza e di fiducia. E basta dare un’occhiata ai numeri per capire che non è
aria. Nel 2008 le banche hanno ridotto gli utili del 50% rispetto al 2007 e nei primi tre mesi del 2009 la redditività si è ulteriormente contratta del 39% rispetto al 2008. Il presidente dell’Abi, Faissola, aggiunge che è “in forte diminuzione la redditività delle banche: la redditività perde in media 7 punti percentuali rispetto alla fine del 2008 e si ferma al 5%, livello sicuramente basso e insufficiente a remunerare il costo del capitale”. A rendere tutto più difficile c’è anche il calo dei tassi: un problema comune a tutte le banche del
mondo, si dirà. Ma non è così invece secondo Franco Masera, amministratore delegato della società di consulenza Kmpg Advisory: “Altrove” sostiene “una percentuale consistente di ricavi e margini delle banche viene dalle commissioni. Da noi, invece, dove non si è mai abituata la clientela a pagare per i servizi, si punta tutto sullo spread. Questo significa che la riduzione dei tassi provoca danni più gravi”.
La prudenza, insomma, altro non sarebbe che un modo per cercare di limitare i danni se si verificasse lo scenario peggiore.
“Non lo ritengo probabile” aggiunge Masera “ma non si può neppure escludere: se gli ordini non ripartono e le aziende cominciano a saltare, anche le banche rischiano di seguire la stessa china, con una chiusura micidiale del cerchio fra economia reale e finanziaria”.
Come se ne esce? L’unica soluzione, e qui sono tutti d’accordo, è una maggiore attenzione al territorio. “Già nell’ultimo anno” conclude Masera “le banche piccole e medie si sono rafforzate rispetto alle grandi. E’ logico che sia così, perché le sinergie derivanti dalle fusioni sono minime, mentre avere un direttore che conosce i clienti fa una gran differenza di questi tempi”.
Aspettano con ansia anche i sindacati, “Almeno tre grandi gruppi” dice Lando Sileoni, segretario nazionale aggiunto del Fabi, “si preparano ad aggiornare i piani industriali alla luce della crisi: Banco Popolare, Ubi e Intesa”. La parola d’ordine è “riduzione dei costi”, che fa presto a tradursi in un taglio degli organici, di cui la Fabi non vuole sentir parlare. “Abbiamo già dato con la ristrutturazione degli anni scorsi” aggiunge Sileoni. “Anzi, ci sono 4-5 mila contratti a tempo determinato, lavoratori interinali e apprendisti che devono essere regolarizzati”. Anche su questo fronte non sarà un autunno facile, per le banche. Insomma l’assedio è concentrico. E continua.
(Economy, 09 Luglio 2009)