Banchieri, fuori dalla politica
di Daniele Lorenzetti
Il mercato non crea più ricchezza ma solo diseguaglianza. I tecnici? Ok per un breve periodo, ma la democrazia è un’altra cosa. E servono al bene comune. Parla Michael Sandel, il filosofo più ascoltato nelle università di tutto il mondo
(13 marzo 2012)
Professore, allora i banchieri devono guadagnare più delle infermiere sì o no?
«Il punto di questi esperimenti di ‘public philosopher’ non è offrire la mia ‘verità’ ma stimolare il dibattito su certi temi considerati intoccabili. La mia risposta comunque è che certe differenze non sono giustificate».
Il movimento ‘Occupy’ ha sollevato il velo della disuguaglianza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Come la giudica da filosofo e da cittadino?
«Da tempo sono un critico delle disuguaglianze crescenti nelle nostre economie, che a mio avviso sollecitano serie questioni sull’ingiustizia e quello che deve essere il ruolo proprio dei mercati in una società democratica. Non credo che i mercati di per sé possano definire un’idea di giustizia più del concetto, arduo ma inevitabile, di bene comune».
«Siamo scivolati nell’assunto che i mercati siano gli strumenti primari per ottenere il bene comune. E’ urgente che questo venga messo in discussione. E ho provato a farlo nel prossimo saggio, che uscirà ad aprile e si intitola ‘Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali dei mercati’».
«Bisogna chiedersi se ci sono beni e pratiche sociali che non dovrebbero essere regolate da meccanismi di puro mercato ma da valori diversi. La famiglia e le relazioni personali in primo luogo, ma anche istituzioni sociali più larghe come educazione, salute, cittadinanza e sicurezza, protezione ambientale. Molti assumono che il mercato può risolvere queste questioni e allocare al meglio questo tipo di beni. Non mi sembra così evidente».
«Innanzitutto occorre sgombrare il campo dall’idea che il banchiere si meriti moralmente queste somme. E’ un errore assumere che la gente che fa un sacco di soldi ha un ‘diritto morale’ di tenerseli tutti. E questo solleva il dibattito sul tema della redistribuzione e della meritocrazia (il successo è merito dell’individuo o frutto anche delle circostanze e di quello di cui la società ha bisogno in un dato momento?). La sola base ragionevole a mio avviso sono gli incentivi e il contributo all’efficienza dell’economia che il ruolo di un banchiere comporta».
«Non credo che i banchieri mostrino virtù superiori che li intitolano per sé a guadagni maggiori. Per efficienza intendo un argomento puramente utilitario, che tuttavia ha certi limiti. Certo è ragionevole organizzare istituzioni sociali che incrementino le attività economiche e la ricchezza, ma questo canone non dovrebbe essere assolutizzato».
«Molte banche dicono ‘se non possiamo pagare certe cifre perderemmo talenti eccezionali’. Ma questi proclami vanno esaminati con scetticismo per vedere se è vero. Guardando al divario di stipendio tra un Ceo e un semplice lavoratore ci sono enormi variazioni storiche e geografiche: negli Stati Uniti siamo a un rapporto di 350 a uno, in Gran Bretagna 120 a uno, in Giappone e Europa le differenza sono meno drammatiche. E difficilmente si potrebbe sostenere che i dirigenti di quelle banche siano tutti meno capaci degli altri. Anche quaranta anni fa queste differenze non esistevano, e non certo per mancanza di talenti».