Insuccessi a catena, audience in calo, la grana Tg4… Ora il Biscione deve fare i conti con il post berlusconismo. E soffre. Ma per esperti, vip del settore e illustri ex il punto debole della rete è la programmazione.
di Gianfrancesco Turano
(10 aprile 2012)
Dopo lo sfratto del Cavaliere dagli studios di palazzo Chigi, l’elettore-spettatore-azionista ha tagliato la corda. Il 2011 è stato l’anno più triste per la triade dei canali generalisti targati Fininvest. Canale 5, Retequattro e Italia Uno hanno chiuso con uno share giornaliero del 32,1 per cento contro il 35,2 del 2010 e il 44 per cento del 2003, quando l’ammiraglia Canale 5 valeva da sola più del 30. Il primo trimestre 2012 è in ulteriore ribasso, con un 30,62 per cento complessivo per le tre reti principali del gruppo Fininvest. Certo, la tv generalista sconta l’arrivo del digitale. Ma anche includendo gli spettatori del Dtt, i conti non tornano. La crisi è di sistema e Mediaset non fa più eccezione.
Nel 2012 l’insieme dei canali generalisti di Mediaset, Rai e La7 è sceso per la prima volta sotto la soglia del 70 percento (69,81 per cento). Sembra un secolo quando la tv tradizionale corrispondeva al 91 per cento dell’Auditel. Invece era nove anni fa. Ci sono voluti sei anni per scendere sotto il muro dell’80 per cento e poco più di due per andare sotto il 70. L’emorragia cresce in progressione geometrica.
Nel triangolo d’oro tra Cologno Monzese, Segrate e Arcore striscia la depressione e la notizia è il processo sommario a Emilio Fede. Brutto segno quando si licenzia così una bandiera, il Paolo Maldini del Biscione con vent’anni al servizio della maglia. Ma Silvio Berlusconi – Maldini docet – sa essere spietato con chi fa di testa sua. E se persino il profeta del Tg4, sodale di bunga bunga, di cene da Giannino e di interviste beatificanti, è finito al muro, figurarsi quanto rischiano gli altri.
Un occhio del padrone più vigile non significherà tornare all’epoca rimpianta da Giancarlo Galan, forzista e publitaliota ante-marcia. Secondo l’ex governatore del Veneto ed ex ministro, prima della discesa in campo Silvio era capace di fare una mezza dozzina di numeri zero di ogni programma televisivo e controllava ogni cosa, dal tacco della ballerina al timing degli applausi del pubblico.
Impossibile rivivere l’età dell’oro. Ma un’inversione di rotta s’impone dopo anni in cui l’ambizione politica del proprietario ha intaccato le capacità creative di Mediaset e il blitz con decreto legge ha sostituito la logica industriale. Su questo concordano quelli che hanno lavorato e lavorano per il Biscione, due categorie che hanno scelto di parlare con “l’Espresso” sotto garanzia di anonimato, un po’ per eleganza e un po’ per non finire fuori rosa come l’ex direttore del Tg4 oppure ceduti a un altro club come Cristina Parodi, passata dal Tg5 a La7 sulle orme della sorella Benedetta.
Ogni prospettiva di rilancio passa dallo scrigno di Mediaset, ossia dagli spot di Publitalia, la macchina da guerra creata nel 1980 sotto la guida di Marcello Dell’Utri e oggi in mano a Giuliano Adreani, amministratore delegato anche di Mediaset. Dallo scorso novembre, quando Berlusconi si è dimesso dalla guida del governo, le tre reti generaliste hanno perso circa il 10 per cento della raccolta. Nel 2011 Mediaset ha segnato a consuntivo 2,66 miliardi di ricavi pubblicitari lordi (quasi due terzi del mercato pubblicitario tv) e 2,4 miliardi al netto degli sconti di agenzia. Gli incassi sono scesi di 130 milioni di euro rispetto al 2010 con una flessione del 4,5 per cento sui ricavi lordi e del 5,1 per cento sui ricavi netti.
Sono entrambe perdite superiori a quelle del mercato nazionale che, tolta Mediaset, è in calo del 4,2 per cento nel 2011. La fatica di portare a casa questo risultato è ancora più evidente se si considera che Mediaset, secondo stime della Nielsen, ha aumentato del 26 per cento l’offerta di spot sulle sue reti dal 2010 al 2011. A Cologno Monzese sottolineano che, in termini di audience complessiva fra canali generalisti e digitale terrestre, c’è una buona tenuta soprattutto nel prime time, quello che consente gli incassi maggiori.
Non bene, soprattutto per gli analisti di Borsa che con i loro report mettono sotto pressione il management del Biscione. Di recente, ogni previsione al ribasso si è rivelata ottimistica. Per esempio, quella fatta da Mediobanca (partecipata da Fininvest) che a fine 2011 stimava utili netti Mediaset per 256 milioni di euro. Alla fine, sono stati 176, la metà dell’anno precedente.
Esperti, vip del settore e illustri ex concordano sul fatto che il punto debole di Mediaset è la programmazione. La linfa creativa sembra esaurita. Tolti i successi recenti di “Italia’s got talent” e di Giorgio Panariello, il prime time e il preserale dei canali berlusconiani sono un misto di flop (“Stasera che sera”, “Baila!”, “Muzik show”), attempati ma pur validi fuoriclasse (“Zelig”, “Scherzi a parte”, “Le iene”, “Striscia la notizia”) e pugili suonati come il “Grande fratello”. Domenica scorsa, la finale del Gf numero 12 (diconsi dodici) è stata strapazzata dalla fiction pre-pasquale “Maria di Nazaret” su RaiUno con il risultato di 7 milioni di spettatori a 4, pari a un mediocre 20 per cento di share. «Siamo consapevoli che il prodotto va rivisto», ha commentato Paolo Bassetti di Endemol. Proprio martedì 3 è stata rivista anche la logica dell’investimento fatto da Mediaset in Endemol con la decisione di uscire del tutto dalla società di produzione oggetto di una ristrutturazione da oltre 2 miliardi. Poi è anche vero che salvo lo scontro con Sky, vicina alla soglia della doppia cifra di audience con 9,51 di share ottenuto lo scorso marzo, in tv vige una concorrenza sui generis. “Maria di Nazaret” è prodotta da Rai Fiction, un’azienda ancora in mano al Pdl, dalla Luxvide controllata dalla famiglia Bernabei e da un amico di Silvio come Tarak Ben Ammar, e da Telecinco Cinema del gruppo Mediaset.
Ma non è sempre Pasqua. Il largo consumo, che è stato sempre la forza delle reti Fininvest, è in recessione. Come spiega un noto anchorman: «E’ la stessa crisi dei giornali free-press. Il loro pubblico spende così poco che non vale la pena fare inserzioni. Qui non si comprano più neppure i materassi e uno che vende cashmere non investe su un programma per scemi».
Le difficoltà dell’economia e il bisogno di fare soldi in fretta per non finire in croce nei report degli analisti finanziari fa sì che si investa relativamente poco in creatività e nelle altre professioni della tv. Il grosso dei soldi, e Mediaset ne spende tanti, finisce in tasca alle star, sempre più sovraesposte, e ai format che hanno già avuto successo in altri paesi. Insomma, si preferisce ingaggiare il campione alla Zlatan Ibrahimovic invece di lavorare sul vivaio. «Il bacino di creatività esiste», dice un produttore che lavora con Mediaset e con la Rai, «ma non viene attivato. Le reti generaliste hanno un’attitudine molto conservativa e la vivacità si esprime molto di più attraverso Internet, anche se lì ancora mancano i razionali economici che consentano di tradurre i contatti in denaro».
Altre difficoltà arrivano dal settore all news di TgCom24, partito lo scorso 28 novembre con una struttura di costi molto pesante e ricavi bassi, e da Mediaset Premium. La piattaforma pay diffusa su digitale terrestre ha superato il mezzo miliardo di euro di fatturato ma ha un risultato operativo 2011 in rosso per quasi 70 milioni di euro dopo un 2010 in sostanziale pareggio. Anche qui i costi sono condizionati dal rialzo continuo dei diritti per le partite di calcio. E’ un caso da manuale di come il conflitto di interessi possa avere un effetto Tafazzi, con Berlusconi proprietario del Milan che tira il collo a Berlusconi azionista di Mediaset. D’altra parte, Premium è nata per contrastare l’espansione di Sky Italia, come ha dichiarato Adreani al “Sole 24 ore”. Ma i 2 milioni di abbonati del network non bastano a fare quadrare i conti. Un arricchimento dei contenuti è in programma, ma comporterà un aggravio dei costi. Non c’è altra strada per conquistare quella che il marketing orrendamente definisce “fascia aspirazionale”, gli esigentissimi paganti che vogliono vedere la finale di Champions League in alta definizione sull’iPad alla fermata dei taxi o nella lounge di un aeroporto. Il futuro di un mercato cresciuto fino a 8,7 miliardi di euro dipende da loro, dall’Hd, dalla banda larga, dal Web e sempre meno dalla tv gratis, che nel 2003 valeva oltre quattro quinti del mercato e oggi meno di due terzi (62,9 per cento). Se i ricavi della televisione sono in crescita il merito è di clienti molto diversi dallo zoccolo duro della platea berlusconiana, invecchiato, impoverito e annoiato dalla miliardesima replica di “Walker Texas Ranger”. Chuck Norris e Silvio, due eroi di altri tempi.