A due anni dal disastro nucleare di Fukushima, va avanti quella che la Croce Rossa ha definito una “crisi umanitaria in corso” che rischia di durare per decenni. Sono 160 mila i cittadini costretti a evacuare e decine di migliaia quelli che lo hanno fatto volontariamente. Vite distrutte, senza che ancora una sola persona abbia avuto una compensazione adeguata per i danni ricevuti. Qual è il quadro che emerge a due anni dall’incidente? Quali le lezioni da trarre?
1. L’industria nucleare non paga i danni che provoca. A fronte di un danno stimato fino a 169 miliardi di euro, di fatto c’è stata la nazionalizzazione dell’azienda proprietaria dell’impianto. A pagare il conto, dunque, saranno i contribuenti giapponesi e se guardiamo le convenzioni sulla responsabilità civile in campo nucleare, vediamo che o esistono limiti molto ridotti alle compensazioni cui è tenuta l’azienda esercente dell’impianto (al massimo nell’ordine di 1,5 miliardi di euro) o, laddove la responsabilità è legalmente illimitata, di fatto non esistono strumenti finanziari di protezione. Nel caso di catastrofe nucleare a pagare sono i cittadini sia in termini di salute e distruzione delle loro vite che economici. Una sola eccezione è data dall’India in cui la legge considera responsabile l’industria per tutti i danni che può provocare: l’amministratore delegato di General Electric ha dichiarato di recente che con questa legge non entreranno nel mercato indiano;
2. Le aziende che forniscono le tecnologie nucleari hanno responsabilità civile pari a zero in caso di incidente. Non solo. Come analizzato nel rapporto di Greenpeace “Fukushima Fallout” due delle imprese fornitrici delle tecnologie che hanno contribuito a provocare l’incidente – Toshiba e Hitachi – sono coinvolte nelle operazioni di bonifica. Questo vuol dire che lucrano su un incidente di cui sono in qualche modo corresponsabili;
3. L’incidente di Fukushima è stata una vera e propria “Cernobyl del mare” per le enormi quantità di radioattività scaricate nell’oceano. La situazione è ben lontana dall’essere stata risolta: la contaminazione delle catena alimentare, la quantità enorme di rifiuti radioattivi provenienti dalle operazioni di bonifica (29 milioni di metri cubi), i tempi e i costi dello smantellamento dei reattori (la cui situazione è tuttora precaria con grandi quantità di acqua radioattiva di raffreddamento da dovere stoccare) fanno sì che per diversi decenni Fukushima rimarrà una ferita aperta in Giappone.
Ma quale prospettiva ha il settore nucleare nel mondo?
Anche senza l’incidente di Fukushima l’industria nucleare sarebbe in un grave stallo: troppo costoso e rischioso. Ad esempio, il progetto del reattore nucleare francese EPR – che doveva coinvolgere anche l’Italia con quattro reattori – ha finalmente rivelato il suo costo: 8,5 miliardi di euro – non i 3,2-3,5 con cui era stato proposto in Finlandia e poi in Italia propagandato da Enel. Di recente Enel è dovuta anche uscire dal progetto di Flamanville in Francia per i costi esorbitanti. L’azienda francese EDF per costruire reattori nel Regno Unito chiede un acquisto garantito dell’elettricità per 40 anni a un prezzo circa doppio di quello attuale: si tratta di un sussidio economico che dura persino più di quello concesso alle rinnovabili. E questo senza che il reattore abbia una “sicurezza intrinseca” – obiettivo mai raggiunto dall’industria nucleare dopo 60 anni di storia.
Per fortuna, le alternative tecnologicamente robuste, economicamente abbordabili e quantitativamente disponibili non mancano. Nel solo 2012 le rinnovabili installate nel mondo produrranno energia pari a quella di 20 grandi reattori. E l’efficienza potrebbe tagliare nel medio termine del 20% i consumi aumentando l’occupazione e diffondendo tecnologie innovative.
Una rivoluzione energetica è possibile e indispensabile per un mondo senza i rischi del nucleare e che sappia rispondere alla sfida dei cambiamenti climatici.
Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia